Alcune settimane fa abbiamo parlato del futuro del lavoro e quando si parla del lavoro dei prossimi anni non si può non pensare alle necessità di reskilling, fondamentali per la quasi totalità delle imprese dei più differenti settori.
Ma perché si parla sempre più spesso di reskilling? Il motivo è semplice, il mondo del lavoro sta cambiando molto velocemente. Si stima che nel prossimo decennio circa il 15% della forza lavoro a livello globale (si parla di quasi 400 milioni di lavoratori) sarà costretto a cambiare lavoro.
Facile individuare il fattore che porterà a questa trasformazione. Si parla, ovviamente, dell‘automazione, unita all’intelligenza artificiale, e dunque di tutte le novità che permetteranno di automatizzare delle attività che ancora oggi vengono svolte da essere umani. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di attività di basso profilo o di attività particolarmente ripetitive, le quali sono presenti in tantissimi lavori: gli stessi manager, per esempio, si trovano a dover affrontare quotidianamente delle attività ripetitive che, tra qualche anno, potranno essere svolte da software e algoritmi.
La trasformazione che si prefigura avrà una portata enorme e può essere paragonata a quella determinata dalla rivoluzione industriale di tre secoli fa. Questa volta, però, il cambiamento sarà più veloce, rendendo per l’appunto indispensabile mettere in campo delle precise strategie di reskilling.
Reskilling: la particolare situazione italiana
La necessità di riqualificare la forza lavoro e di mettere in atto precise attività di reskilling, è assolutamente globale.
Non è un caso se proprio il reskilling è stato indicato tra i temi centrali del prossimo anno dal World Economic Forum. Sono stati stimati, in alcuni casi, anche i costi che questi sforzi comporteranno: per gli Stati Uniti, per esempio, sono stati ipotizzati 34 miliardi di dollari da investire proprio nelle attività di reskilling.
Nel caso dell’Italia, però, la sfida relativa al reskilling sembra particolarmente ardua. Il nostro Paese è infatti caratterizzato da un’età media della forza lavoro molto alta, seconda solo a quella del Giappone e della Germania.
Il fatto di avere a che fare con una popolazione lavorativa piuttosto “vecchia” – per i lavoratori italiani si parla di una età media di 44 anni – significa anche, tra le altre cose, avere a che fare con un numero molto alto di lavoratori che hanno iniziato a lavorare e che hanno studiato in anni in cui non esistevano i personal computer, in cui non esisteva la rete e l’automazione digitale del lavoro non veniva neppure immaginata.
Non è un caso se il Fondo Monetario Internazionale ha indicato proprio nell’Italia – insieme alla Grecia – il Paese con maggiori rischi di perdere produttività a causa dell’invecchiamento della popolazione.
Parallelo e complementare è il tema del mismatch tra domanda e offerta, ovvero il discorso relativo al gap esistente e sempre più grande che esiste tra le competenze ricercate dalle aziende e quelle effettivamente possedute dalle persone in cerca di lavoro.
Il fatto che le aziende che ricercano figure IT abbiano molto spesso difficoltà nell’individuare dei candidati qualificati dimostra ulteriormente la necessità di maggiore skilling e quindi di un concreto piano di reskilling, con corsi e percorsi mirati per aumentare e migliorare le competenze digital dei professionisti.
Tutto questo vale su piani differenti, in quanto mancano sia figure altamente specializzate in ambito IT, sia profili meno qualificati ma con sufficienti competenze digitali di base, quand’anche queste siano richieste dalla maggior parte delle aziende.
La soluzione non è sempre assumere: skilling e reskilling
Nel momento in cui un’azienda ha bisogno di nuove competenze, la prima soluzione a cui si pensa è sempre quella di un nuovo processo di ricerca e selezione del personale, per individuare nuovi talenti sul mercato del lavoro da assumere in azienda.
Non sempre, però, questa è la soluzione migliore, come anticipato a causa del gap tra domanda e offerta molto spesso è difficile individuare il profilo ricercato con le necessarie competenze.
Certo, rivolgendosi a degli head hunter specializzati nel settore di riferimento – come per esempio nel reclutamento di figure IT – le possibilità di trovare il candidato ideale aumentano di molto.
Abbiamo, però, visto che nei prossimi anni molte delle competenze presenti in azienda diventeranno obsolete: accanto ai processi di selezione di nuovo personale, quindi, diventerà fondamentale attuare dei percorsi di reskilling, per fornire ai dipendenti le competenze necessarie per dare il meglio in un mondo digitale.
Ovviamente il passaggio non sarà immediato, in prima battuta, affinché tutto questo sia possibile, è necessario assumere solo persone disposte a imparare e a crescere: i processi di reskilling sono assolutamente impossibili quando si ha a che fare con dei dipendenti che si rifiutano di apprendere nuove tecniche e nuove skill.
Eppure, nel caso di profili lavorativi divenuti obsoleti in modo particolarmente rapido – o che si apprestino a diventare tali – i percorsi di reskilling sono l’unica via.
Non ci sono, del resto, altre direzioni da prendere: ogni anno andranno persi migliaia e migliaia di posti di lavoro, con le persone chiamate a rimettersi in gioco con nuove e rinnovate competenze.
Per restare competitive le aziende hanno bisogno di aumentare le proprie competenze digitali, e questo ricade prima di tutto sulle spalle dei loro dipendenti. Il 40% di loro – a livello europeo – non possiede un’educazione digitale.
Per il reskilling possono attivarsi le singole persone alla ricerca di un nuovo lavoro, oppure, le stesse aziende, che possono impostare corsi ad hoc per i propri dipendenti.
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